PREMIAZIONE SEZIONE DANZA CON AMEDEO AMODIO
Allievo della scuola di ballo del Teatro alla Scala di Milano e poi danzatore del Balletto scaligero, i suoi interessi non si limitano alla danza, ma a ogni forma d’arte, stimolato anche dalle esperienze vissute in un teatro che in quel periodo si avvaleva di collaborazioni di artisti di grande spessore, registi, direttori d’orchestra, cantanti, scenografi, coreografi, ballerini, attori. La curiosità di ampliare le sue esperienze
lo portano, all’età di 22 anni, a lasciare il Teatro alla Scala per iniziare la carriera di coreografo e ballerino da libero professionista e più tardi ad assumere la direzione artistica dell’allora nascente Aterballetto, la prima compagnia stabile di danza costituitasi al di fuori di un ente lirico, qualcosa di unico nel panorama della danza italiana. Per circa vent’anni, ad Amodio sono affidate le sorti dell’ensemble formato da ballerini solidi dal punto di vista tecnico, ricchi di espressività e capaci di essere interpreti raffinati di un repertorio vasto che porta la firma di grandi coreografi del ‘900, quali George Balanchine, Roland Petit, Antony Tudor, Léonide Massine, August Bournonville, Kenneth McMillan, Alvin Ailey, Glen Tetley, William Forsythe, Hans van Manen, Maurice Béjart, Micha van Hoecke, Jiří Kylian, Roland Petit, José Limón.
Per Aterballetto Amodio firma molte creazioni, alcune delle quali hanno visto la partecipazione di grandi interpreti come Elisabetta Terabust, Alessandra Ferri, Vladimir Derevjanko, Julio Bocca, Roberto Bolle, George Iancu, Alessandro Molin, Massimo Murru, Viviana Durante, Igor Yebra. La sua esperienza prestigiosa lo porta nel 1997 alla direzione del Corpo di Ballo dell’Opera di Roma – dove come danzatore in passato aveva vissuto un periodo fecondo di stimoli grazie all’incontro con Aurel Milloss – e nel 2003 del Teatro Massimo di Palermo. Coreografo ospite in molte Compagnie di balletto degli Enti Lirici in Italia e di Compagnie negli Stati Uniti, riceve numerosi premi nel corso della sua carriera sia come danzatore che come coreografo, ultimo dei quali nell’aprile 2015 il “Premio alla carriera” nella giornata Internazionale della danza, e nella stessa giornata il Sindaco di Reggio Emilia gli consegna il “Primo Tricolore”, onorificenza che viene assegnata alle personalità che hanno dato lustro alla città.
Dal 2014 ad oggi i suoi lavori, Lo Schiaccianoci, Carmen e Coppelia, grazie a Daniele Cipriani che ne ha acquistato gli allestimenti dall’Aterballetto, con la Compagnia Daniele Cipriani Entertainement, hanno ripreso vita, riscuotendo un grande successo in tutti i grandi teatri italiani
“Ritratto di Amedeo”
di Italo Moscati
Se penso all’arte di Amedeo Amodio un’immagine, anzi soprattutto un nome, s’affaccia alla mente. Un nome, un nome-simbolo: quello di Ariel, il personaggio di William Shakespeare, un nome di origine ebraica che significa “Leone divino”. Leggero, elegante.
Già il significato del nome introduce una contraddizione: come può essere “Leone” e per giunta “divino” una figura che nella grande opera di Shakespeare possiede la magia del volo e lo spessore lieve, filosofico di una esistenza che richiama la folla dei personaggi della Tempesta a una tragedia con i piedi per terra?
Faccio una piccola premessa: i classici, per fortuna, ci aiutano a sollevarci dalle nostre inquietudini quotidiane e soprattutto dalle nostre visioni prive di saggezza e di futuro, oltre che di leggerezza. Quella di cui ha parlato anche Italo Calvino, la leggerezza che è nell’anima, che bisogna avere dentro. Del resto, non fu un caso se Amodio mise in scena United we dance a San Francisco in occasione del 50° anniversario dell’ONU, spettacolo ispirato alle famose Lezioni americane calviniane. I classici di ieri e di oggi. Basta un semplice rimando ad essi, per muovere i pensieri, agitare le emozioni, provocare idee e sentimenti.
Amedeo è dunque un “Ariel”. Fantasioso, pieno di grazia artistica e personale, capace di catturare il volo di farfalle meravigliose e farlo suo. “Leone” nella costanza e nella potenza inventiva. “Divino”, in moderno senso biblico, nella aspirazione di andare avanti, con il destino che non si ferma, che ci sovrasta e ci conduce dove vuole, e che sfidiamo sempre.
Ho conosciuto personalmente Amedeo quando sceneggiavo con Liliana Cavani Il portiere di notte e poi Al di là del bene e del male, una biografia reinventata ma molto attendibile di Friedrich Nietzsche e di Lou Andreas-Salomé e di Paul Rée (un “triangolo scandaloso”).
Amedeo vi compariva come attore, assolutamente seducente, ispiratore dei personaggi a lui affidati. E come coreografo. Scene indimenticabili. In un fatiscente albergo viennese, in un campo di concentramento nazista, in una livida mattina a piazza San Marco di Venezia. Lo avevo poi visto al lavoro sia come danzatore che come realizzatore di spettacoli. La conoscenza personale, le frequentazioni purtroppo saltuarie ma continue negli anni, gli scambi di opinioni, hanno accresciuto come spesso accade il mio interesse per una linea di sperimentazione instancabile e inquieta, compiuta alla Scala di Milano e all’Opera di Roma.
Da appassionato di danza mi sono fatto raccontare da Amedeo i suoi rapporti con i musicisti con cui ha lavorato (Luciano Berio, Sylvano Bussotti e tanti altri), scenografi e costumisti, pittori e scultori (Emanuele Luzzati, Maurizio Millenotti, Mario Ceroli, Piero Dorazio, Claudio Parmiggiani…), danzatori (Elisabetta Terabust, Julio Bocca, il grande e amatissimo Maurice Béjart, Alessandra Ferri…). Una sequenza di esperienze incredibili affrontate sempre, anche nel ricordo, con sensibilità e pudore. Ci siamo raccontati i musical che ci sono piaciuti e che compaiono spesso nelle tenebre televisive delle notti, illuminandole.
Che cosa ho capito e ricavato in tutti questi anni di attenzione, di confidenze, di approfondimenti, anni misurati sul desiderio di fare delle code insieme in nome dell’amore per la danza che diventa spettacolo e dello spettacolo che si esalta nella danza?
Ho scoperto l’assoluta disinvoltura spaziale della ricerca di Amedeo dentro e fuori il teatro, verso il cinema, verso la danza che trovava nel cinema (persino nelle immagini in movimento del muto) progettando continue possibilità di integrazione e sviluppo della creazione attraverso la danza.
Per uno come me – vicino alla musica, al teatro e al cinema – imbattermi in un artista che registrava tutte le forme estetiche in movimento, per comprenderle a fondo e riutilizzarle, ha significato ascoltare le lezioni di leggerezza dense di giudizi, riflessioni, stimoli, provocazioni capaci di trasformarsi in scena.
Prediligo gli spettacoli che mi obbligano a sapere quel che non so, a sentire quel che non so sentire, a vedere quel che mi scopre cieco. E, ogni volta, gli spettacoli di Amedeo suscitano in me una sensazione di stupore e di gratitudine.
Ho provato stupore quando negli anni Novanta, nello spazio Caracalla a Roma, ho assistito alla Cabiria di Amodio ispirata al mito che nel 1914, in pieno cinema muto, il regista Giovanni Pastrone aveva trasformato nel primo kolossal dell’arte allora diciannovenne, il cinema, partendo da poche pagine di Gabriele D’Annunzio.
Amodio conservava di quella storia, della leggenda e del film di Pastrone alcune suggestioni; ma ecco che il mio stupore si dilatò nella bella estiva notte romana per l’imprevisto gioco degli schermi diventati grandi lenzuola che danzavano insieme agli attori e ai danzatori; per il risuonare di tamburi e tamburelli che riempivano il muto della storia del cinema muto; per la sottile, eppure evidente, anzi potente capacità di calamitare emozioni senza strappi o violenze.
Era l’abilità del regista-coreografo a imbastire un flusso instancabile di trame visive, efficaci, raffinate, in un reticolo di soluzioni meravigliose.
Provai anche stupore per Lo Schiaccianoci che vidi qualche tempo dopo. In un teatro romano. Se il kolossal del muto era scomparso dietro lenzuola scese dal grande schermo, il lavoro di Pëtr Il’ič Čaikovskij mi apparve agitato dalla volontà riuscita di non fermarsi alle suggestioni già note, al piacere della musica e della rappresentazione. Non un richiamo al valore indiscutibile e noto dell’opera originaria. Non all’esito atteso per un appuntamento collaudato nel tempo e nel successo. Non una traccia in più aggiunta alle stratificazioni geologiche di rappresentazioni compiute e sovrapposte le une alle altre.
Vedevo un altro Schiaccianoci, quello di Amedeo, filtrato da un gusto della contemporaneità attinto da un intento desideroso di andare oltre le convenzioni più solide, e magari meritevoli, per proiettarsi in una combinazione armoniosa non priva di colpi di scena. I colpi di scena della grazia e della fantasia servite da una tecnica che non si mostra, si nasconde, non si compiace.
Amodio diede il volo al suo Schiaccianoci. Uno spettacolo di danza su un tappeto volante. Fatto di colpi d’ala, colori e movimenti. Una nuova pellicola inventata a teatro, senza Walt Disney. Stupore.
(Dal programma di sala de Lo Schiaccianoci al Teatro dell’Opera di Roma dicembre 2014)